Da bambino Kobe Bryant era l’idolo dei tifosi delle squadre in cui militava suo padre, in Italia. Nell’intervallo delle partite di papà Joe, raccontano i biografi e chi ha avuto la fortuna di vederlo di persona, tirava da solo e raramente sbagliava il canestro. Studiava da campione già allora in quell’infanzia trascorsa nella provincia italian. Il nonno dall’America gli mandava le videocassette dei grandi, Magic Johnson e Michael Jordan, perché imparasse.
Imparò talmente bene, quel ragazzo alto quasi due metri, da esordire nell’Nba senza nemmeno fare il passaggio nel campionato universitario che è via per tutti i grandi del basket Usa. «Non l’avevo detto a nessuno ma dentro di me ne ero convinto: sì, sarei diventato il giocatore più forte del mondo». Sembra di sentirlo dire queste parole con quella faccia sempre sorridente e quel fare amichevole.
Più giovane giocatore dell’All Star Game (19 anni e 175 giorni) l’8 febbraio 1998 e miglior realizzatore con 280 Punti. Più giovane giocatore ad essere stato scelto nel NBA All-Rookie Team (1996-97). Più giovane giocatore ad avere segnato 33.000 punti e quarto miglior realizzatore di sempre in Nba. 81 punti in una sola gara. Cinque titoli Nba. Due ori olimpici.
Kobe Bryant non è stato solo un giocatore di pallacanestro, seppur eccezionale, è una filosofia di vita. Si va ben oltre il parquet.
È difficile spiegare a chi non abbia una passione totalizzante cosa sia un’ossessione, ma se parliamo di Kobe, dobbiamo dire soprattutto che sbagliando si impara perché lui, nella sua carriera, ha sbagliato più tiri di quanti ne abbia messi a segno. Diventi Kobe Bryant se sbagli tanto, ma insisti e riprovi. Era dotato di un talento straordinario, ma l’ha sempre alimentato con tanto lavoro, con una serietà e un’etica professionale incredibile. Il punto non è essere Kobe Bryant, ma diventare il Kobe Bryant di se stessi.
Perchè il lavoro duro batte il talento -solo- se il talento non lavora duro.
#GoodByeHero
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